IL MEDICO ASCOLTA?

Il medico ascolta? TESTIMONIANZA di Paolo Benciolini
Mail: paolo.benciolini@unipd.it
“L’infermiere ascolta…” così si apre l’art. 20 del Codice Deontologico degli infermieri nell’edizione del 2009. Non altrettanto è possibile trovare nei diversi testi del Codice Deontologico dei medici che si sono succeduti, numerosi, negli anni e fino all’ultima versione che è stata approvata nel maggio 2014. “Ascoltare”: un verbo estraneo al lessico dei medici? Curiosamente, esiste un altro verbo, il cui etimo è tuttavia il medesimo, che appartiene invece al linguaggio tecnico con il quale, da sempre, si distinguono i diversi momenti della visita clinica sul paziente: la semeiotica classica indica, infatti, accanto a “ispezione”, ”palpazione” e ”percussione”, anche la “auscultazione”. Ma proprio in questa fase il medico procede ad una indagine (percepire, con l’orecchio o con appositi strumenti amplificatori, i suoni che provengono dagli organi interni, essenzialmente cuore e polmoni) ai fini della quale costituirebbe paradossalmente una interferenza negativa l’eventuale “parlare” del paziente.
Questa perdurante carenza del Codice Deontologico esprime una sostanziale “indifferenza” del medico nei confronti di ciò che il paziente, che gli si rivolge, intende (o vorrebbe) proporgli? Sarebbe certamente sbagliato rispondere a tale domanda in termini semplicisticamente affermativi. Persiste diffusamente, è vero, un atteggiamento mentale che privilegia il “parlare” rispetto all’ “ascoltare”, come se l’atteggiamento che caratterizza l’incontro con la persona malata rientrasse, comunque, nel contesto di una prestazione di “prescrizione”. Non solo il “parlare”, quindi connota tradizionalmente l’approccio del medico con chi lo interpella professionalmente, ma non raramente è un parlare che “decide”, ”dispone” e quindi lascia poco spazio ad un vero “ascolto”. Tuttavia, pur se la “tradizione” continua a giocare un peso sui comportamenti e le prassi professionali, non si può ignorare l’indubbia maturazione della sensibilità alla dimensione interpersonale constatabile, oggi, in molti medici, grazie anche all’irrompere della Bioetica che ha decisamente influito sulla stessa formulazione delle indicazioni deontologiche di riferimento. E proprio richiamandoci ai noti “principi” della Bioetica [1], potremmo dire che in questi anni la relazione medico/paziente oscilla tra il persistere di un atteggiamento ancora “paternalistico”, orientato al cercare (ma anche a decidere di conseguenza) quale sia il bene del paziente (principio di “beneficialità”), e la considerazione dell’interlocutore come persona che va prima di tutto accolta e rispettata nelle sue esigenze (principio di ”autonomia”).
Ascoltare il paziente: riferimenti deontologici.
Alcuni segnali di una evoluzione significativa capace di assicurare questo atteggiamento di rispetto (e quindi anche di favorire un reale “ascolto”) li possiamo trovare proprio nella recente versione del Codice Deontologico. Nel definire le “competenze del medico” (art. 3), accanto alle conoscenze specifiche della medicina e alle correlate capacità di tradurle nella pratica professionale, si richiamano le “abilità non tecniche”, termine con il quale (“no- techical Skills”) la letteratura internazionale indica appunto le capacità relazionali. Si tratta di una prospettiva assolutamente innovativa e che rimanda necessariamente ad una adeguata formazione (art. 19). Dobbiamo quindi immaginare (e sperare) che sia a livello della preparazione universitaria (negli ordinamenti didattici dei corsi di laurea, ma anche nelle scuole di specializzazione), sia nelle iniziative di “formazione continua (che spettano anche agli ordini professionali) queste nuove indicazioni si traducano in modalità formative adeguate, che richiedono anche l’apporto di competenze e di metodologie solitamente assenti nei curricula formativi (quella psicologica, in particolare, e, rispettivamente, esperienze di dinamica interpersonale e di gruppo).
Un secondo spunto è fornito dal frequente ricorso al termine “relazione di cura”. Lo troviamo, in particolare, nel primo articolo (art. 20) dedicato ai “rapporti con la persona assistita” e che, appunto, porta quel titolo. Anche in questo ambito vanno richiamate alcune importanti innovazioni:
l’affermazione che la relazione richiede la “condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità”; la dichiarazione che il medico “persegue l’alleanza di cura” e il riconoscimento che la stessa è “fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti”. Una serie di termini (“relazione”,”alleanza”,”mutuo rispetto”) che si farebbe francamente fatica a riconoscere nella tradizionale impostazione paternalistica, qualora si intendesse dare davvero alle parole il loro significato. Allora anche la persistente assenza, nel Codice, di qualunque riferimento al dovere primario di “ascoltare” suona ormai solo come una “dimenticanza” puramente formale.
Una terza ulteriore innovazione contenuta nella versione del 2014 riguarda, nuovamente, le caratteristiche della “relazione di cura”. Nel descrivere l’importanza della comunicazione, si precisa (art. 20) che il tempo ad essa dedicato va considerato “quale tempo di cura “. Questa affermazione appare doppiamente rilevante, anche sotto il profilo che qui stiamo esaminando.
Da un lato, infatti, si offre al medico una fondamentale indicazione pedagogica: la cura richiede anche un tempo adeguato per la comunicazione (che è fatta di ascoltare e parlare), dall’altro si “dettano” ai responsabili dell’organizzazione sanitaria precise linee di indirizzo: l’esigenza di garantire momenti adeguati per la relazione di cura non può essere insidiata e compromessa da impersonali e burocratici provvedimenti di contenimento (in pochi minuti) dell’orario delle prestazioni.
Saper ascoltare. La medicina narrativa.
Una relazione di cura che sia in grado di basarsi sulla “reciproca fiducia” non solo esige che il medico “ascolti”, ma anche che “sappia ascoltare”. Quando il prossimo testo del codice deontologico verrà predisposto, ci si augura che la sua formulazione tenga conto di questa precisazione. Un generico invito ad ascoltare il paziente rischierebbe, infatti, di suonare come un’ulteriore espressione di stampo paternalistico. Saper “essere” un interlocutore attento e rispettoso esige, infatti, una preparazione anche scientificamente (nel senso delle “scienze umane”) corretta.
Un accenno va fatto, a questo punto, ad una modalità di comunicazione che, da poco più di una decina di anni, sta diffondendosi anche nell’ambiente medico italiano. Si tratta della “medicina narrativa”, della quale si è cominciato parlare, a livello internazionale, all’inizio degli anni 2000 e che trova attualmente in Italia autorevoli ed appassionati cultori [2]. Rita Charon, riconosciuta come la massima esperta mondiale in questo settore, afferma: [3]. Geraldine Fiechter, che dirige la “Collana di Medicina Narrativa”, nel presentare il (citato) contributo di Zuppiroli, aggiunge che si tratta di .
Ascoltare gli altri per saper ascoltare anche se stessi.
Il tema della capacità di ascoltare non attiene, per il medico, al solo rapporto con il paziente. Ancora una volta si tratterebbe, altrimenti, di una visione inquinata dall’ottica paternalistica (“lo faccio solo perché è lui la persona della quale mi devo preoccupare”). Molti sono, specie in questi ultimi tempi, i possibili (ma spesso abituali) interlocutori. Interessa qui accennare ad almeno due tipologie: i familiari del paziente e i colleghi.
Il rapporto con i familiari è stato di volta in volta considerato (anche nelle indicazioni deontologiche) come riferimento quasi obbligato o, all’opposto, da evitarsi a tutela della privacy del proprio assistito. Con riferimento al tema in esame, appare comunque evidente l’esigenza che il medico sappia porsi in atteggiamento di ascolto di tutti coloro che partecipano alla vita del paziente e sono in grado di contribuire ad una maggior comprensione della sua situazione e del suo vissuto di malattia. Ma vi sono poi questioni che richiedono, anche per indicazioni normative, di interpellare esplicitamente i familiari: sulle scelte del paziente in ordine alla possibilità di donare, dopo la morte, i propri organi e sul suo eventuale orientamento, quando non espresso documentalmente in condizioni di consapevolezza, a favore della sospensione di trattamenti vitali. Come ignorare che anche in queste relazioni, spesso meno agevoli rispetto al rapporto diretto ed abituale medico/paziente, si richiede una grande capacità di “parlare-ascoltare”? Quanto poi ai colleghi e, più in generale, ai collaboratori del medico, basterebbe ricordare che una quota considerevole di “eventi avversi” nella pratica medica quotidiana trova la sua spiegazione nella carenza di corrette comunicazioni, a sua volta addebitabile anche alla frequente incapacità dei diversi operatori di ascoltarsi reciprocamente. ha denunciato in questi giorni Francesco Bevere, direttore generale di Agenas (agenzia nazionale servizi sanitari), riferendosi non solo alla comunicazione con gli assistiti, ma anche a quella tra gli operatori sanitari.
Questa indispensabile estensione del tema dell’ “ascolto”, dal rapporto medico/paziente a ogni altra relazione in ambito sanitario, non può, tuttavia, ritenersi completata se non si riflette sulle correlate ripercussioni su ciascuno degli attori di tale relazione. Osserva Pagni [4]: <È necessario che i medici di famiglia siano consapevoli della necessità di prestare attenzione alle storie dei pazienti e a comprenderne il vissuto emozionale, ma anche a riflettere sulle proprie emozioni nei confronti del racconto di ‘quella malattia’ e di come questo influisca sulla pratica clinica>.
Negli anni scorsi, su iniziativa del Comitato etico dell’Azienda Ospedaliera di Padova, si è sviluppata una importante e preziosa esperienza di “Ricerca-Azione” di tipo etnografico, con stile dialogico che ha interessato tutto il personale di tre strutture internistiche. Nella relazione conclusiva [5] il coordinatore, Salvatore La Mendola, osserva che la finalità di tale iniziativa non andava ricercata tanto nello scopo di insegnare a comunicare, quanto in quello di .
Ancora da Rita Charon, quando la “medicina narrativa” stava muovendo i primi passi, leggiamo [6]: .
Fonte: Servitium (Serie terza – anno quarantanovesimo), n.220, luglio-agosto 2015, pagg.91-96.
Bibliografia
[1] T.L. Beauchamp e J.L. Childress, Principi di Etica Biomedica, trad. it. Firenze, 1999.
[2] Cito, in particolare, i seguenti recentissimi contributi: S. Spinsanti, La medicina in forma di narrazione, Ponte Blu ed., 2014 e A. Zuppiroli, Le trame della cura. Le narrazioni dei pazienti e l’esperienza di un medico per ripensare salute e malattia, Emmebi Edizioni, 2014.
[3] R. Charon, Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness Oxford Un. Press, 2006.
[4] La Medicina Basata sulla Narrazione, in “Il medico oggi, tra complessità e tecnologia. Dalla Biologia alla Biografia delle persone”, C.G. Edizioni Medico-Sciemtifiche, 2014.
[5] In corso di stampa.
[6] Ann. Intern. Med., 2001.

Lascia un commento